Dieci minuti con se stessi – argomento: “NON E’ RISORTO, SI E’ INNALZATO”
NON È RISORTO, SI È INNALZATO
L’immagine di un Cristo sfolgorante di luce che si libra sul sepolcro, dopo averne scardinato la pietra tombale, non è evangelica ma è attinta solo ai primi testi cristiani apocrifi. Forse una frase come questa suona eterodossa ed “ereticale” agli orecchi di non pochi nostri lettori che negli occhi hanno la possente fisicità della Risurrezione di Cristo che Piero della Francesca dipinse nel 1463 nella sala dell’antico palazzo comunale del suo paese natale, Borgo Sansepolcro. E, invece, la frase è ineccepibile ed è proprio da questa reticenza descrittiva dei Vangeli canonici che vorremmo avviarci per una riflessione sulla Pasqua, evento e articolo di fede centrale del cristianesimo.
Partiamo, allora, da quell’alba ancora incerta di una primavera tra il 30 e il 33. Tre sono gli elementi registrati dal racconto evangelico. Ecco innanzitutto farsi avanti un gruppo di donne, seguaci di Gesù. Siamo di fronte a un dato storico incontrovertibile: essendo, secondo il diritto semitico, le donne inabilitate alla testimonianza valida, giuridica o storica, gli evangelisti non avrebbero mai “inventato” una simile attestazione, affidata a persone “incapaci” di testimoniare, se essa non fosse stata nella nuda e semplice realtà dei fatti. Veniamo, così, al secondo dato: la pietra che sigillava l’apertura della tomba – secondo la rilevazione attestata da quelle donne – giace ribaltata. L’evangelista Giovanni aggiunge una nota ulteriore sull’interno di quel sepolcro così come appare a un testo successivo, Pietro: “Vide le bende per terra e il sudario, che era stato posto sul capo di Gesù, non per terra con le bende ma piegato in un luogo a parte” (20, 6-7). Dunque, una tomba vuota che conserva le tracce di un morto ormai non più presente.
Ecco, infine, il terzo elemento narrato dai Vangeli, una teofania, cioè un’esperienza trascendente, rappresentata da una figura angelica che proclama le stesse parole del successivo Credo cristiano: “È risorto!”. Una formula che ha lo scopo di spiegare quella tomba vuota. Siamo, a questo punto, nel cuore del problema che suscita un grappolo di domande alle quali potremo dare ovviamente solo un abbozzo di risposta (biblioteche intere di storiografia, esegesi e teologia lo hanno già fatto in modo ben più sistematico). Che senso ha l’espressione “risorto dai morti”? La formula “risurrezione di Cristo” usata dai Vangeli e dalla tradizione cristiana comprende un evento storico o è solo una categoria ermeneutica, cioè un’interpretazione teologica di una realtà trascendente? E il termine “risurrezione” è l’unico usato per descrivere la Pasqua di Cristo?
Innanzitutto sottolineiamo che per il Nuovo Testamento la misteriosa vicenda finale di Cristo non può essere ricondotta alla rianimazione pura e semplice di un cadavere, come quelle compiute da Gesù nei confronti di Lazzaro (Giovanni 11) e del figlio della vedova di Nain (Luca 7, 11-17). Ora, noi siamo di fronte a un evento che ha contorni verificabili storicamente (la tomba vuota, i lini abbandonati, la testimonianza delle donne) ma il cui nucleo è trascendente. C’è, dunque, anche il ritorno alla vita di Gesù morto, ma ciò che accade in quell’atto, non descritto dai Vangeli, è – per usare un’immagine di Gesù – simile a quanto avviene al seme o al lievito. Si ha una trasformazione che va oltre il corpo di Gesù e incide su tutto l’essere e sulla storia. Nella lettura evangelica di quell’evento la divinità, la trascendenza, l’eterno e l’infinito, attraverso Cristo, Figlio di Dio, sono penetrati nella realtà intera dell’umanità e nell’essere cosmico trasfigurandoli; è un’irradiazione che feconda di eternità il nostro tempo.
Ora, per esprimere questo evento che incide nella storia in modo non solo episodico ma radicale, il Nuovo Testamento è ricorso a due linguaggi che cercano di esprimere ciò che è di sua natura un “mistero”, ossia una realtà trascendente e superiore all’orizzonte umano. Il primo è quello della risurrezione, un linguaggio già noto all’Antico Testamento: basterebbe leggere il capitolo 37 di Ezechiele ove, in una visione surreale, il profeta descrive lo Spirito creatore di Dio che ritesse su una distesa di scheletri la carne della vita, dando origine a un immenso popolo vivente. Il Nuovo Testamento esprime la “risurrezione” con il verbo eghéirein, “risvegliare” dalla morte, simbolicamente inteso come un sonno, oppure con il verbo anístemi, “levarsi, sorgere in piedi”. Dietro il velo del linguaggio simbolico si vuole le indicare che Gesù come uomo passa attraverso il segno radicale dell’umanità, la morte, “risvegliandosi” alla vita divina che gli appartiene e che ora pervade il morire, vincendolo.
C’è, però, un altro linguaggio, caro a Giovanni, a Luca e a Paolo che è definito di esaltazione o glorificazione ed è espresso con il verbo greco hypsoùn, “innalzare elevare”, e con immagini di ascensione verso l’alto. Basterebbe citare tre frammenti giovannei: “Come Mosè innalzò nel deserto il serpente, cosi bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo… Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono [Nome Divino]… Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (3, 14; 8, 28; 12, 32). Oppure basterebbe rievocare il racconto dell’ascensione al cielo ribadito da Luca nella finale del suo Vangelo (24, 50-53) e in apertura alla sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli (1, 6-12). Il senso del linguaggio è chiaro. Con la “risurrezione” si affermava la continuità tra il Gesù storico e il Cristo risorto; con l’ “esaltazione” si celebra la gloria divina del Risorto e la novità del suo status. Venendo in mezzo a noi, Gesù è divenuto in tutto simile a noi; con la morte egli conclude la sua parabola storica, ma è “esaltato”, cioè rientra nel mondo divino a cui appartiene come Figlio di Dio, attirando a sé quell’umanità che egli aveva assunto incarnandosi e morendo per condurla alla gloria. Questo è nitidamente dichiarato nell’inno che Paolo incastona nella sua Lettera ai Filippesi (2, 6-11): “Cristo, pur essendo di natura divina, spogliò se stesso assumendo la condizione di servo (…), facendosi obbediente sino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ho esaltato e gli ha dato un nome che è sopra ogni altro nome (…) Così che nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra”.
L’ascensione-esaltazione-innalzamento non è, quindi, da concepire in termini materialistici o “astronautici”, ma secondo categorie metafisiche e teologiche: fra l’altro, in tutte le culture il cielo è l’area della divinità perché trascende l’orizzonte terreno, è il simbolo della superiorità e diversità di Dio rispetto all’uomo. Quanto accade nella risurrezione di Cristo è, dunque, un evento complesso, accuratamente rappresentato dai Vangeli. È un evento che si radica nel tempo e nello spazio, è cioè nella morte e in una tomba, e che perciò ammette una verificabilità storica; ma esso fiorisce nell’eterno e nel divino, ed è per questo che esige un’analisi nella fede e nella teologia. Nella sua sostanza la Pasqua di Cristo è una realtà trascendente e, come tale supera la pura verifica storica. Ma ha una risonanza efficace anche nella storia e nello spazio ove rimangono tracce e segni, per cui ha una sua legittimità anche un’investigazione di taglio storiografico. Ora comprendiamo perché gli evangelisti si sono rifiutati di ridurre quello che avviene al sepolcro di Cristo’ entro i confini di una rianimazione di cadavere e siano invece ricorsi a linguaggi più profondi e simbolici.
Nelle sue Lettere di Nicodemo (1951) lo scrittore polacco cattolico Jan Dobraczynski, morto nel 1994, fa una considerazione che potremmo porre a suggello del nostro particolarissimo e limitato itinerario nell’orizzonte pasquale cristiano: “Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua certi che essa si aprirà sotto di noi. Non ti è mai parso che vi siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?”. I racconti evangelici pasquali sono prima di tutto testi di fede e, proprio per questa via, aprono la ricerca di una comprensione che sia anche razionale e storica. Il credere e il comprendere s’intrecciano in modo complesso e delicato e costituiscono la struttura fondamentale della teologia cristiana. Un filosofo, il gesuita Xavier Tilliette nella sua opera la Settimana Santa dei filosofi (1922), scriveva che “la filosofia deve attestarsi alla soglia delle apparizioni pasquali, al sabato santo. Essa non deve testimoniare la Gloria. Occorre mantenere castamente la frontiera, diceva il filosofo Schelling”. Certo, la filosofia e la storiografia non possono appropriarsi delle vie della grazia e della fede. Tuttavia questo non impedisce alla fede di agganciarsi alle vie della ragione e alla ragione di guardar oltre le sue frontiere. Scriveva Agostino: “Chiunque crede pensa e pensando crede… La fede se non è pensata è nulla” (De praedestinatione sanctorum 2, 5)